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Siamo tutti consumatori, pentiti.


- Tyler: Sai cos'è un piumino?

Protagonista: Una trapunta.

Tyler: Una coperta, solo una coperta. Perché due come te e me sanno cos'è un piumino? È essenziale alla nostra sopravvivenza nel senso cacciatore raccoglitore? No, allora cosa siamo?

Protagonista: Siamo... Che so? Siamo consumatori?

Tyler: Esatto, siamo consumatori. Siamo i sottoprodotti di uno stile di vita che ci ossessiona. Omicidi, crimini, povertà. Queste cose non mi spaventano. Quello che mi spaventa sono le celebrità sulle riviste, la televisione con cinquecento canali, il nome di un tizio sulle mie mutande, i farmaci per capelli, il Viagra... -


Dialogo tratto dal film: “Fight Club”, anno 1999, regia di David Fincher.

Film celebre che ha tracciato una direzione chiara verso un atteggiamento critico nei confronti della società consumistica, oltre che verso le risse stradali immotivate. Certo Fincher non poteva ipotizzare nel 1999 un così alto livello di stupidità globalizzata ed enfatizzata da internet, ma questo non ci interessa.


Siamo consumati dal consumo. Siamo quello che possediamo. E siamo anche quello che non possediamo, consumati nell’animo alla ricerca di un estensione materiale di noi stessi. Espandiamo l’energia individuale attraverso gli oggetti. Le cose. Quelle cose siamo noi.

Non è proprio bello essere paragonati ad una cosa, ma c’è chi punta solo a quello.

Tutta una vita dedicata al raggiungimento dello status di “COSA”.


Perché acquistiamo?

Acquistiamo per raccontare qualcosa di noi agli altri. Il possesso delle cose è una parte che integra e sostiene la narrazione che ci definisce e ci permette di formare la nostra identità. Si compra quindi per possedere più strumenti necessari al processo di affermazione e comunicazione del sè. Per lo sviluppo di una identità individuale e la costruzione, ovviamente, di un’identità collettiva. Queste condizioni si trovano sempre più spesso sostituite da identificazioni derivate da differenze tra i consumi. La conseguenza è inevitabilmente quella che ci si accontenta di essere rappresentati da ciò che si possiede.


Perché ci pentiamo?

Giunti ad una certa condizione sociale, conseguentemente ad un livello di accumulo che non ci soddisfa e cessa di essere la nostra rappresentazione, all’improvviso ecco che arriva la redenzione.... Il pentimento per ciò che si è fatto, o meglio per tutto quello che si è acquistato. E spinti, quantomeno in Italia, dallo spirito di San Francesco, ci spogliamo (in senso figurato) degli averi e sposiamo l’austerità.


Ma sì, via tutto. Chi se frega! Tanto chi si ricorderà di quanto avevamo non ci giudicherà in modo eccessivamente severo. Capirà.

In questo processo entra in gioco il fattore delle potenzialità. Non dimostrare di avere, ma dimostrare di poter avere. Questo improvviso senso di vuoto per alcuni è decisamente benefico; purifica la mente, ridona il giusto equilibrio alle cose e spesso ripristina il conto in banca.

Per altri è solo un passaggio temporaneo, quasi una fase di sperimentazione al pari di una dieta in vista dell’estate. Come un fumatore che si prende una pausa perché ha l’influenza. Perciò, questi ultimi, rimangono sempre sensibili a qualsiasi stimolo esterno e pronti a riprendere la prassi consumistica, come e più di prima. Quindi diciamo che sono afflitti da un pentimento a breve scadenza.


Purtroppo per noi, ma non per l’economia, questa categoria rappresenta la maggioranza dei consumatori. Se ci pentissimo tutti assieme il mondo sprofonderebbe di colpo in un baratro senza fine. La società dei consumi non è per niente pronta, né ha l’intenzione di preparasi all’evento, ma siete matti? Non fate brutti scherzi eh... per favore pentiamoci uno alla volta.

Uno alla volta, per carità!


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